La tempesta bellica agita le onde di casa Online, in edicola e in libreria
Riassunto geopolitico degli ultimi 7 giorni. La telefonata Biden-Xi, la guerra in Ucraina, il referendum in Tunisia…
TELEFONATA BIDEN-XI [di Giorgio Cuscito ]
L’incontro telematico tra il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il suo omologo della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping non ha sciolto i dubbi sulla possibile tappa a Taiwan della speaker della Camera dei rappresentanti Usa Nancy Pelosi nell’ambito di un viaggio in Giappone, Corea del Sud, Malaysia e Singapore che dovrebbe iniziare oggi venerdì 29 luglio.
Lo scalo di Pelosi a Taipei, venticinque anni dopo quello del suo predecessore Newt Gingrich, metterebbe in imbarazzo Xi e la Cina prima del delicato congresso del Partito comunista. Cioè l’evento che in autunno dovrebbe confermarlo alla guida del paese, alle prese con diverse difficoltà domestiche e l’impossibilità di assorbire l’isola pacificamente.
Secondo la versione cinese, Xi ha prima parlato genericamente dei rapporti sino-statunitensi per poi affrontare il dossier taiwanese. A riguardo, il leader cinese avrebbe detto che «coloro che giocano con il fuoco periranno a causa di esso». Minaccia già espressa a novembre che collima con le non specificate misure «risolute e forti» promesse da Pechino qualora Pelosi facesse scalo a Taipei. Per gli americani il governo cinese potrebbe inviare dei caccia per intercettare l’aereo oppure annunciare una no-fly zone sopra Taiwan.
Il comunicato americano non riporta le affermazioni di Xi. Tuttavia sottolinea che Washington si oppone al cambiamento unilaterale dello status quo. In pratica, non riconosce diplomaticamente la sovranità di Taipei, sostiene militarmente e politicamente l’isola e quasi certamente interverrebbe in sua difesa qualora Pechino decidesse di invaderla.
Biden non si è imposto per impedire il viaggio di Pelosi, ma giorni fa ha sottolineato che per il Pentagono «non è una buona idea». Tale incongruenza è frutto del nesso tra la partita politica interna agli Usa e il dossier Taiwan. Il presidente Usa non vuole essere tacciato di debolezza nei confronti di Pechino dai repubblicani, ma allo stesso tempo non vuole scatenare una crisi con la Cina parallela a quella con la Russia in Ucraina.
? Carta: La Cina del “sogno cinese”
RUSSIA “SPONSOR DEL TERRORISMO” [di Mirko Mussetti]
Il Senato degli Stati Uniti ha approvato all’unanimità una risoluzione non vincolante per invitare il segretario di Stato Antony Blinken a includere la Federazione Russa nella lista degli Stati sponsor del terrorismo a causa della sua condotta non solo in Ucraina (appoggio ai separatisti del Donbas, che compiono «atti di violenza contro i civili»), ma anche in Siria (sostegno al «governo terrorista» di Damasco), Georgia e Cecenia. Una simile iniziativa di condanna per la «morte di migliaia di uomini, donne e bambini innocenti» è stata presentata alla Camera dei rappresentanti , dove la speaker Nancy Pelosi si è detta favorevole. Se l’amministrazione Biden dovesse accogliere la richiesta del Congresso, la Russia si aggiungerebbe alla lista degli “Stati canaglia” al fianco dei nemici storici dell’America: Cuba, Iran, Siria e Corea del Nord.
La pressione bipartisan sull’esecutivo di Washington affinché designi Mosca come sponsor del terrorismo potrebbe portare anche alla rottura delle relazioni diplomatiche tra le due superpotenze nucleari. Un rischio non indifferente per lo stesso impero a stelle e strisce, alle prese in questi giorni anche con il nodo della possibile visita di Nancy Pelosi a Taiwan (vedi commento precedente) . Le sollecitazioni per un’impraticabile emarginazione assoluta della Russia impensieriscono la Casa Bianca, che intravede all’orizzonte il rischio dell’apertura di un non sostenibile doppio fronte politico-militare.
La richiesta dell’Ucraina di una fornitura sempre maggiore di sistemi d’artiglieria a lungo raggio (con relative munizioni e assistenza tecnica) potrebbe essere esaudita alla luce dell’orientamento bellicoso del parlamento statunitense verso la Russia, ma metterebbe a rischio la possibilità di accogliere un’eventuale richiesta di simile ausilio militare da Taiwan, preoccupata dalla crescente assertività non solo verbale della Cina continentale. Per quanto efficiente, l’apparato industriale degli Stati Uniti non è in grado di sostenere il flusso costante di munizioni su due fronti tra loro distanti e dalle linee logistiche lunghissime. È il caso dei missili per i lanciatori multipli M142 Himars, che a ritmi di guerra sostenuti – in Ucraina e altrove – vedrebbero esaurire in poche settimane la produzione di un anno. Lasciando pericolosamente sguarniti i magazzini della principale potenza del pianeta.
La proposta del Congresso verrà con ogni probabilità accolta per motivi di consenso interno (le elezioni di midterm si avvicinano), ma sarà premura del Dipartimento di Stato trasformare la delicata questione sullo status della Russia in un’occasione per calare una nuova “cortina d’acciaio” sul Vecchio Continente senza accelerare una rischiosa doppia escalation militare: contro Mosca per l’Ucraina, contro Pechino per Taiwan.
? Carta inedita a colori: L’invasione russa dopo cinque mesi
REFERENDUM IN TUNISIA [di Lorenzo Noto ]
Il 25 luglio si è tenuto in Tunisia un referendum per modificare la costituzione approvata nel 2014 a seguito della rivoluzione dei Gelsomini. Secondo i dati preliminari dell’autorità elettorale, il 94.6% dei votanti si è espresso a favore della riforma proposta dal presidente Kaïs Saïed. Il nuovo testo definisce il capo dello Stato responsabile della politica generale del paese e dell’operato della magistratura, capo dell’esecutivo affiancato da un premier da lui designato, oltre che comandante supremo delle Forze armate. Inoltre, svincola il presidente da qualsiasi controllo, non prevedendo disposizioni per l’impeachment a differenza della carta del 2014.
A un anno esatto dalla destituzione dell’esecutivo guidato da Hichem Mechichi, l’uomo solo al comando conferma di poter contare su una buona base popolare; lo dimostra la stessa affluenza ai seggi (circa il 30%), molto bassa per i canoni democratici ma ben più alta rispetto alle previsioni. In un contesto di stagnante crisi economica, aggravata dal connubio di Covid-19 e rincaro dei prezzi sulle materie prime causa guerra d’Ucraina, il cambio di tono in senso strettamente presidenziale della “mitica” democrazia tunisina trova dunque il consenso di quasi due milioni di persone (su nove aventi diritto al voto) e marca il livello di sfiducia verso un sistema considerato troppo lento e inefficace nel gestire crisi, soprattutto economiche. Disincanto che un recente sondaggio effettuato da Arab Barometer mostra comune in diversi paesi tra Nordafrica e Medio Oriente.
La consultazione si è dunque dimostrata favorevole anche a coloro che avevano scommesso su Saïed dall’estero, per ripristinare stabilità in un paese decisivo nel sistema Mediterraneo. La Tunisia, in quanto prima appendice meridionale dello Stretto di Sicilia, è chiave non solo per il controllo della fascia nordafricana, testa di ponte verso Caoslandia, ma anche per quello delle principali rotte marittime tra Gibiliterra e Suez. Centralità geostrategica che ne ha aumentato le pressioni internazionali dal 2011 in poi. A partire dal duo Qatar-Turchia, che con l’ascesa di Saïed ha perso quell’influenza imperniata sul partito islamista Ennadha cresciuta esponenzialmente dopo la caduta di Ben Ali. Proprio in funzione anti-turca ha puntato sul presidente tunisino la Francia, che ne aveva avallato il «golpe» per scongiurare una tenaglia turca tra Tunisia e Tripolitania. Anche Emirati Arabi Uniti, Egitto e Arabia Saudita hanno sostenuto l’ascesa di Saïed, nonostante la tregua tattica attualmente in corso con Ankara, in funzione di contenimento dell’estroflessione turca tra Libia, Tunisia e Algeria.
Grande assente è invece l’Italia, la quale nella crisi tunisina ha abdicato a un potenziale ruolo di mediazione, nonostante il vicino africano sia direttamente implicato in diverse questioni riguardanti il nostro interesse nazionale: su tutte la gestione dei flussi migratori, la stabilizzazione della Libia e la questione del gas. Proprio quest’ultima sarà decisiva nell’immediato futuro. L’Italia importa infatti il gas algerino lungo i 380 chilometri di tubo subacqueo che connettono attraverso il territorio tunisino il campo di Hassi R’mel in Algeria agli impianti di stoccaggio di Mazara del Vallo. I recenti accordi Eni-Sonatrach hanno consacrato Algeri come nostro prossimo primo fornitore di gas e la Tunisia come inaggirabile via di transito delle nostre principali forniture. Motivo in più per non perdere di vista ciò che accade sull’altra sponda dello Stretto di Sicilia.
Ad agosto, la nostra rassegna geopolitica rallenterà il ritmo. Pubblicheremo una puntata a settimana, il venerdì, fino al 2 settembre compreso. Il mondo oggi riprenderà la sua cadenza quotidiana lunedì 5 settembre. Sul sito nelle prossime settimane troverete il nuovo numero – La guerra grande, in uscita il 9 agosto in edicola e libreria – e i consueti appuntamenti con carte e articoli inediti. Grazie dell’attenzione con cui ci seguite e un augurio di buone vacanze a chi le farà. [Niccolò Locatelli]
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