Il crudele gioco dell’oca dei camminanti attraverso il confine tra Italia e Francia – Italia Libera

2022-10-14 14:02:50 By : Mr. Tianrui ZS

È fine settembre: i volontari dell’accoglienza di via Cottolengo a Torino lasciano la periferia dell’ultimo paese dell’Italia e seguono le tracce degli ultimi camminanti. Salgono per ripidi pendii, attraversano sentieri impervi, per cercare di comprendere fatica e sofferenza dei migranti che tentano di entrare in Francia dall’Italia, in Val di Susa. Al rifugio Fraternità Massi diviene ancora più chiaro il “game”, il “gioco dell’oca” che uomini, donne e bambini in fuga sono costretti a subire per un futuro migliore: «Vi sono persone che vengono dalla Libia senza più unghie ai piedi: gliele hanno strappate. Altri migranti hanno sul corpo i segni di cicatrici o ferite non ancora rimarginate delle violenze subite nei centri di prima accoglienza, sulle coste siciliane e calabresi o in qualcosa di simile in Bosnia: a causa del sovraffollamento si litiga per tutto, dal letto da dividere in quattro e che si prende il più forte; così è pure per il cibo, qualsiasi cosa, anche un pettinino, un pacchetto di sigarette…»

Il reportage di ALBERTO GAINO, da Claviere

SALIAMO IN UNA cinquantina per uno dei ripidi pendii del primo tratto che i “camminanti” percorrono per entrare in Francia dall’Italia, al culmine della Val di Susa. I camminanti non hanno documenti da mostrare alle frontiere, inclusa questa. Li avessero, verrebbero ricacciati indietro. Come avviene comunque. Per questo sono fantasmi che hanno fatto della forza delle loro gambe, dei loro polmoni, del loro cuore e cervello l’unica risorsa, riassumibile nella ostinazione di inseguire un futuro migliore rispetto al passato che hanno lasciato in Afghanistan, Pakistan, Siria, in tanti paesi africani e quasi in ogni altro posto povero e perseguitato da dittature. 

A metà del sentiero, quando ormai siamo entrati pure noi in Francia, incrociamo due gendarmi che procedono in direzione opposta, senza far caso alla nostra strana comitiva. Eppure, fra noi vi sono giovani dalla pelle di colore sospetto e che, anni fa, hanno preso il mare sui barconi dei Caronte libici. Per quanto bianconeri, siamo tanti, ben vestiti, con cuffie collegate ad iPod che pendono al collo di alcuni e in testa alla comitiva vi sono due splendidi esemplari canini di golden retriever. I gendarmi hanno l’occhio e l’olfatto allenati: fiutano la disperazione degli ultimi della Terra, che salgono ogni giorno da Oulx, ultimo balzo della Val di Susa, sino a Claviere attraverso una fenditura d’asfalto fra le montagne, vi sia sole o piova o nevichi. E di là, per i boschi, tentano l’ennesimo game della loro vita di camminanti. Tempo di percorrenza minimo: 4 ore.

Il sentiero, che noi percorriamo in un’oretta per giungere a Montgenèvre, loro lo abbandonano dopo i primi duri saliscendi e si inerpicano nelle fitte pinete che portano sino a quasi i duemila di quota. In un sabato qualunque di fine settembre abbiamo lasciato la periferia dell’ultimo paese dell’Italia prima di un confine virtuale per noi europei, e seguito le tracce degli ultimi camminanti in quel primo tratto di sentiero impervio: radici di alberi, sassi e rocce affioranti in cui inciampare è facile. Camminiamo per comprendere un centesimo della fatica dei migranti, del loro piccolo mondo ai margini di tutto. 

Siamo una strana comitiva perché quasi tutti volontari dell’accoglienza in via Cottolengo, a Torino. Anche se con la nota istituzione che porta quel nome non abbiamo direttamente a che fare. Centinaia di volontari che offrono cibo, visite mediche, aiuto per ottenere documenti, cercare lavoro, imparare la nostra lingua, sostenere famiglie sbandate nella povertà, donne in fuga dalla violenza domestica o di strada. Come accadeva quasi duecento anni fa per le Maddalene, le ex carcerate accolte negli stessi spazi nel primo rifugio di questo genere da una marchesa con una storia particolare: Giulia Colbert Falletti di Barolo. Le Maddalene ricambiavano mettendosi a disposizione delle donne e bambine che vivevano in strada. Senza conoscere tutta quella storia, dal mio antico mestiere di giornalista sono approdato, con le mie mani senza calli, alla porta di chi oggi ha preso il posto della marchesa: l‘ufficio pastorale Migranti della diocesi torinese e la Camminare insieme, associazione che evoca il messaggio di un profetico prete diventato cardinale di Torino nel tempo delle lotte operaie e studentesche del Sessantotto. 

In quel sabato qualunque di fine settembre pure noi siamo su quel sentiero per camminare insieme, in un certo senso, con il gruppo di migranti ormai scomparsi nei boschi. Di prima mattina li avevamo incrociati arrivando ad Oulx, sul cancello della Fraternità Massi: tappa iniziale del nostro “pellegrinaggio laico”, nelle scarpe dei camminanti, che al rifugio della Fraternità, per prima cosa, hanno scambiato con paia nuove. Economiche, ma adatte per scarpinare su e giù per i monti fra l’Italia e la Francia e, una volta oltre confine, giù verso Briançon, inoltrandosi sempre più spesso nel buio e nei silenzi delle notti, attenti a non ricorrere nei tratti più impervi alle luci dei cellulari. I gendarmi francesi sono sul chi va là, pronti a dar la caccia a chi tenta il game che ho già citato e che, a questo punto, conviene che spieghi.

Negli ultimi dodici mesi sono passati per la Fraternità Massi 15.000 camminanti diretti in Francia. La Fraternità ha cento posti letto fra le sedi di Oulx e Bussoleno, in bassa valle. Offre riparo, cibo, attenzione con alcuni dipendenti e tanti volontari. Fra cui Federica, medico reduce da Lampedusa che, ad Oulx, vicino a casa sua, assiste i più malconci fra i camminanti insieme ai colleghi ed infermieri di Medici per i diritti umani (Medu). «Arrivano qui al rifugio – racconta lei – in tanti con i piedi pieni di vesciche e piaghe, ma anche con i segni delle violenze subite dai poliziotti delle tante frontiere attraversate lungo la rotta balcanica o nei lager libici. Vi sono persone che vengono dalla Libia senza più unghie ai piedi: gliele hanno strappate. Altri migranti hanno sul corpo i segni di cicatrici o ferite non ancora rimarginate delle violenze subite nei centri di prima accoglienza, sulle coste siciliane e calabresi o in qualcosa di simile in Bosnia: a causa del sovraffollamento si litiga per tutto, dal letto da dividere in quattro e che si prende il più forte; così è pure per il cibo, qualsiasi cosa, anche un pettinino, un pacchetto di sigarette…».

«Non è per caso che il disagio più frequente – Federica completa il quadro della situazione sanitaria ‒ è il disturbo post traumatico da stress che lungo le rotte dei migranti è stato al più trattato con ogni tipo di psicofarmaci; in Libia ne distribuiscono di pericolosi e non più prescrivibili da noi: danno effetti collaterali seri». Tocca ad un sacerdote, don Luigi Chiampo, parroco a Bussoleno e fondatore della Fraternità Massi, chiudere il cerchio del racconto a più voci: «L’ottanta per cento dei migranti arriva dalla rotta balcanica e non pochi sono in viaggio anche da 5/6 anni. Il game è riservato ai più poveri, che vanno a piedi e che rischiano spesso di essere bloccati e riportati al primo punto di approdo – la Turchia – dopo centinaia, a volte migliaia di chilometri percorsi verso l’Europa del lavoro. È un crudele gioco dell’oca ed ecco perché si parla di game».

«Nemmeno una volta a Briançon si è sicuri di non essere respinti in Italia – racconta don Campo – così c’è chi apre lo zaino e tira fuori una giacchetta da turista per confondere le idee ai gendarmi francesi. I riaccompagnamenti alla frontiera sono frequentissimi. La Croce rossa li riporta al nostro rifugio dove noi, oltre che ospitarli, cerchiamo di metterli in guardia dai pericoli delle rotte tracciate dai GPS di chi è passato mesi fa per i sentieri di queste montagne. Sentieri che non di rado ora sono interrotti da frane e rappresentano un pericolo da evitare, nonostante il tam tam dei cellulari. Nei primi anni in cui i migranti verso la Francia si sono spostati da Ventimiglia alla Valsusa, dal 2017 in poi, ci sono stati fra loro 44 morti. Negli ultimi dodici mesi 2». È il modo più chiaro di rappresentare la funzione di rifugio temporaneo della Fraternità Massi e, solo per aver salvato numerose vittime, l’utilità della spesa dei 600.000 euro per la gestione annua del posto. Con numerosi privati vi contribuisce anche il ministero dell’Interno, con lo stesso segno dei laici sacerdoti e suore: prevenire i pericoli, evitare morti innocenti.

Fuori della Fraternità Massi, su uno scaffale addossato ad un muro dell’edificio principale, acquistato con il resto della struttura dai salesiani con risorse della Fondazione Magnetto, vi sono anche piccole scarpe, per bambini. Ricordano che, con gli adulti, qui ne passano un migliaio l’anno. Metà insieme con i genitori, gli altri sono soli, si sono semmai radunati in piccoli gruppi.  Alcuni sono là fuori, si scaldano al primo sole d’autunno, appoggiati alle pareti di un container d’emergenza che qui è diventata ordinaria. Ci hanno avvertiti che sono afgani e siriani, i più fra i tanti, di 14/15 anni, ma hanno in viso l’esperienza di chi ne dimostra almeno dieci di più. È così e ci guardano, reduci dal loro ultimo respingimento, nella notte, come marziani calati nel loro mondo di incertezza assoluta. Ma convinti che, prima o poi, passeranno di là e che di là troveranno lavoro e futuro. È stato istintivo pensare al lungo tempo in cui anche qui il mondo si divideva, con le guerre e i soprusi quotidiani, fra dominanti e soccombenti e questi ultimi erano costretti a trasformarsi in camminanti. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Giornalista di lungo corso, collaboratore a “il manifesto” nei primi anni Settanta, dal 1981 cronista prima a “Stampa Sera”, poi a “La Stampa”, nella sua carriera si è occupato soprattutto di cronaca giudiziaria. Tra i suoi libri “Falsi di stampa: Eternit, Telekom Serbia, Stamina” (2014) e “Il manicomio dei bambini: Storie di istituzionalizzazione” (2017).

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