Gas, carbone, nickel. E poi coke, frumento, lamiere da treno (che altro non sono che lamiere di acciaio particolarmente spesse). Infine petrolio, rottame ferroso, ghisa e palladio. Questa la top ten delle materie prime e dei prelavorati che hanno visto i maggiori aumenti di prezzo dall’inizio della guerra. Il nickel — più 93% dall’inizio del conflitto — nel momento in cui scriviamo è ancora sospeso dalle contrattazioni al London Metal Exchange, cosa mai successa prima, per gli enormi sbalzi delle quotazioni.
Fonderie e acciaierie: mancano bramme, preridotto, rottame
«Il nickel scarseggia già da due-tre anni — fa il punto Achille Fornasini, docente di Analisi tecnica dei mercati finanziari a Brescia ed esperto del mercato delle materie prime che ci ha aiutato ad elaborare questa “classifica” —. Fino a oggi è stato utilizzato soprattutto per ottenere l’acciaio inossidabile ma negli ultimi tempi si è reso indispensabile anche per le batterie di nuova generazione delle auto elettriche . Ecco perché il prezzo ha cominciato a salire». Le quotazioni al London Metal exchange sono sospese dal 7 marzo per eccesso di rialzo e a venerdì scorso non era stata annunciata la data di ripresa delle contrattazioni. «Gran parte del nickel veniva dalla Russia — spiega Fornasini —. Diverse compagnie minerarie stanno pensando di riaprire siti prima abbandonati ma per aumentare le produzioni ci vuole tempo». Tra le imprese più colpite dall’impatto sulle materie prime della guerra ci sono acciaierie e fonderie. E non solo per la questione del nickel. I materiali che servono per produrre acciaio tramite gli altoforni hanno visto lievitare le quotazioni: è il caso del coke, più 54% dall’inizio della guerra, più 100% dall’inizio dell’anno, e dei minerali di ferro, più 16% dall’inizio della guerra. Da notare: l’unica acciaieria in Italia a ciclo integrale — dai minerali all’acciaio tramite gli altoforni — in questo momento è l’ex Ilva. È vero che le materie prime per Taranto sono aumentate di prezzo, come del resto i costi dell’energia. Ma è altrettanto vero che il prodotto finale dell’acciaieria — i coils, enormi rotoli di lamina d’acciaio — sono aumentati di prezzo del 20,5% dall’inizio della guerra. Si tratta di un semilavorato prezioso per la nostra industria ma al momento Taranto non sta aumentando la produzione. Tornando alle acciaierie, la stragrande maggioranza che opera con forni elettrici non ha vita facile. La materia prima, il rottame , arriva in gran parte dalla Russia o dall’Ucraina. Ne consumiamo circa 21 milioni di tonnellate l’anno, di queste circa 5 milioni di tonnellate arrivano da oltreconfine. Spesso via nave, da Odessa. Il risultato è che il rottame ferroso è aumentato del 31% dall’inizio della guerra e anche il preridotto , altro materiale usato per produrre l’acciaio dai forni elettrici, è aumentato del 13,6%. Le bramme, grandi parallelepipedi di ferro che vengono laminati e trasformati in coils, molto spesso arrivano dalla Russia. Il loro prezzo è aumentato del 16% dall’inizio della guerra. L’alluminio, che è cresciuto del 20%, viene usato come additivo per la produzione di acciai speciali.
Scarseggia la ghisa per i freni a disco (e anche il palladio per le marmitte)
La ghisa in pani viene per il 50% da Russia e Ucraina. In alternativa si potrebbe comprare in Brasile o dal Sud Africa ma ricevere le forniture richiede più tempo e in ogni caso bisogna attivare nuovi canali. Nella migliore delle ipotesi servirà qualche mese. Con la ghisa si fanno componenti per le auto, i basamenti dei motori in particolare e i freni a disco, ma anche componenti per pale eoliche e per centrali idroelettrica. Insomma la ghisa serve anche in produzioni legate al processo di decarbonizzazione. La scorsa settimana, secondo quanto risulta ad Assofond, si sono fermate una quindicina di fonderie. Tra queste la fonderia di Torbole, in provincia di Brescia, e Zanardi fonderie, in provincia di Verona. L’80% delle fonderie in Italia si trovano tra Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Diversi produttori resteranno fermi anche oggi. E questo non soltanto per la scarsità e i costi delle materie prime. Anche chi ha i magazzini pieni di merci comprate a costi accettabili deve fare i conti con valori dell’energia molto alti soprattutto per imprese energivore come acciaierie e fonderie. «Siamo il vaso di coccio in questa crisi generata dalla guerra — tira le somme Fornasini — soprattutto per la nostra dipendenza dal gas russo. Il problema era noto da anni ma non siamo mai corsi ai ripari. Ora, tra l’altro, le imprese sanno che se si arrivasse a un accordo tra Russia e Ucraina i prezzi crollerebbero, anche per questo sono molto caute a fare acquisti a prezzi così alti». Il petrolio è aumentato del 32%, una quota difficile da giustificare tenendo conto che il petrolio importato dalla Russia per il nostro Paese è soltanto il 10%. Il palladio, che arriva in gran parte dalla Russia e serve per esempio per la produzione delle marmitte catalitiche, è aumentato del 18%.
Ceramiche, senza le argille l’emergenza raddoppia
In Emilia Romagna è in grande difficoltà anche il settore della ceramica per due motivi: si tratta di un settore energivoro e in più importa il 50% delle argille e delle sabbie bianche necessarie alla produzione dall’Ucraina e dalla Russia. In Emilia Romagna si calcola che la bolletta energetica regionale passerà da meno di 700 milioni nel 2019 a 5 miliardi quest’anno. D’altra parte il prezzo del gas è aumentato del 180% dall’inizio della guerra, ed era già ai massimi si sempre. Oltre i 250-300 euro a megawatt ci sono acciaierie e fonderie che rischiano di produrre in perdita. E ora siamo ben oltre questa soglia.
Alimentare, cercasi olio di girasole
L’alimentare è in forte sofferenza per l’aumento del prezzo dei mangimi che impatta su tutta la filiera delle carni. Per dire, il mais è aumentato del 16% dall’inizio della guerra. Poi c’è il frumento, cresciuto del 42%. In particolare dall’Ucraina si importa il grano tenero, quello che serve per fare il pane e i prodotti da forno della grande industria alimentare. Anche l’olio di girasole arriva dall’Ucraina come i semi di girasole. Ismea rileva i prezzi medi mensili dell’olio di girasole, il valore medio di febbraio è stato pari a 1,48 euro al chilo, più 20% rispetto al febbraio 2021, ma di certo i valori medi di marzo saranno molto più alti. In realtà trovare l’olio di girasole sta diventando molto difficile, indipendentemente dal prezzo che si è disposti a pagare. Questa materia prima serve per molte produzioni industriali nell’alimentare, a partire dal dolciario.
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